Quando è scoppiata l’epidemia da Coronavirus noi di Salute e Solidarietà eravamo in fase di sviluppo e di crescita. Da qualche mese avevamo avviato la gestione dell’ambulatorio presso Caritas, arricchito anche da un’attività di sportello di etnopsicologia, eravamo attivi presso il dormitorio di via Ravegnana e disponibili a vedere gli ospiti della Capanna di Betlemme.
Stavamo concludendo l’iter che ci avrebbe portato a convenzionarci con l’azienda sanitaria e a potere utilizzare il ricettario del SSN. Eravamo impegnati in iniziative, promosse da noi o da altre associazioni, sia per la formazione di operatori sociali e di volontari, sia per l’educazione alla salute dei nostri utenti. Cercavamo di cogliere ogni opportunità per fare rete con le istituzioni e stringere alleanze con le altre associazioni e gli avvocati di strada.
Erano i primi giorni dello scorso marzo.
Ci siamo consultati fra noi e ci siamo chiesti se continuare a svolgere la nostra attività, tenendo conto anche del fatto che molti di noi sono pensionati e che tanti consigliavano vivamente ai volontari in età anziana di fermarsi. Alla fine abbiamo deciso di continuare ad essere attivi e di metterci a disposizione delle istituzioni e della comunità forlivese. Diversamente altre associazioni di volontariato regionali simili alla nostra hanno temporaneamente chiuso per giustificati motivi di sicurezza.
Ora è venuto il tempo di voltarci un attimo indietro: di fare un primo bilancio, di raccontare e rendicontare quello che abbiamo cercato di fare in queste settimane. Per noi stessi ma soprattutto a coloro che ci hanno aiutato con il loro contributi. Non forniremo numeri, saremo probabilmente in grado di raccoglierli più avanti nel tempo. Ci limitiamo qui ad elencare le azioni intraprese e le attività svolte durante la Fase 1 dell’epidemia Covid-19, coordinate dal dr. Giorgio Verdecchia con la consulenza dell’infettivologo dr. Claudio Cancellieri, entrambi associati di Salute e Solidarietà.
abbiamo potenziato l’attività ambulatoriale anche a favore degli ospiti dei centri di accoglienza e di altre associazioni o cooperative sociali
Nei fatti ci siamo impegnati a osservare tutte le norme di sicurezza previste e abbiamo potenziato l’attività ambulatoriale (presso il Buon Pastore in Via dei Mille), anche a favore degli ospiti dei centri di accoglienza e di altre associazioni o cooperative sociali.
Abbiamo definito, immediatamente dopo l’emanazione delle direttive sanitarie della ASL Romagna e in collegamento con il Distretto di Forlì, una flow chart per stabilire quale comportamento tenere nel caso si rilevino pazienti con febbre o con altri sintomi. La flow chart prevedeva fra l’altro che le persone fossero visitate in ambulatorio dai medici della nostra associazione che svolgono, per loro, la funzione del medico di medicina generale.
Con un nostro etnopsicologo abbiamo inoltre organizzato, per i nostri utenti e gli operatori dei centri, un servizio di colloqui brevi di supporto psicologico per via telefonica.
Da subito andavano affrontati alcuni problemi specifici
Durante il lockdown gli ospiti dei centri di accoglienza erano bloccati all’interno delle strutture di comunità in cui si trovavano in quel momento, con l’impossibilità di potere attuare al loro interno un distanziamento sociale. Inoltre erano presenti in città persone senza fissa dimora che non potevano essere inseriti nelle comunità senza prevedere un periodo precedente di osservazione. Dovevamo cioè evitare di inserire in una comunità persone potenzialmente contagiose.
Le autorità sanitarie nazionali e regionali non avevano dato indicazioni specifiche per le persone e le comunità che non possono godere dell’assistenza sanitaria pubblica. Tali indicazioni sono state emanate e diffuse solo in seguito, quando la nostra attività si era avviata ormai da molte settimane, e sono servite solo a confermarci che ci stavamo muovendo in modo corretto.
Era stato da subito chiaro per noi che avremmo dovuto lavorare, oltre che nella gestione dei casi sospetti, anche e soprattutto negli ambiti della prevenzione primaria (evitare il contagio) e della prevenzione secondaria (fare diagnosi precoce di eventuali malati).
La prevenzione primaria si è esplicata attraverso un’attività di informazione, educazione sanitaria, formazione e supporto, in particolare:
- formazione degli operatori
- indicazioni scritte in più lingue sui comportamenti individuali da osservare per prevenire il contagio
- divieto di uscita dai centri di accoglienza
- utilizzo dei dispositivi di protezione individuale per limitare il rischio di contagio
I dispositivi di protezione individuale, che siamo riusciti a reperire, sono una precauzione necessaria e ulteriore per chi, vivendo in comunità ovvero nei centri di accoglienza, per vari motivi non riesce a rispettare la distanza dalle persone con le quali convive.
A tal proposito un sincero ringraziamento va alle donne in detenzione che hanno risposto alla nostra richiesta di confezionare presidi di copertura del naso e della bocca a protezione delle prime vie respiratorie, data l’assenza in quel periodo di dispositivi specifici.
Sempre nell’ambito della prevenzione primaria abbiamo fornito a gestori e operatori indicazioni, procedure, istruzioni operative semplici e attuabili sulle norme igieniche ambientali da osservare.
Nel campo della prevenzione secondaria abbiamo coordinato l’esecuzione di screening periodici e ripetuti, per monitorare lo stato di salute degli ospiti dei centri di accoglienza di Caritas, della Capanna di Betlemme e delle persone senza tetto. La nostra disponibilità è stata estesa alla verifica e monitoraggio dello stato salute anche dei senza fissa dimora del territorio forlivese per i quali i Servizi Sociali del Comune di Forlì avevano individuato un centro di prima accoglienza, esperienza unica in regione di “alloggio ponte” per il periodo di osservazione delle persone prima del loro trasferimento nei centri di accoglienza.
Abbiamo lavorato per fare diagnosi precoci, assicurando una presenza costante all’interno delle comunità, attraverso:
- misurazione della temperatura
- misurazione della saturazione di ossigeno
- ricerca dei segni clinici che potessero indirizzare al sospetto di infezione
- eventuale visita medica
- all’avvio della fase 2, esecuzione dei tamponi a coloro che hanno ripreso l’attività lavorativa
Come già detto non disponiamo al momento di dati di attività e statistiche.
Quel che possiamo dire è che nessun caso di malattia e di positività si è verificato all’interno della popolazione da noi seguita.
Che fare ora, come continuare la nostra attività?
Naturalmente il lavoro di Salute e Solidarietà prosegue e sicuramente questa esperienza ci aiuterà a migliorare, consolidare e sviluppare le attività della nostra associazione, partendo da alcune considerazioni.
Il virus non è affatto democratico. I costi della pandemia non sono distribuiti in maniera equa e gli impatti futuri saranno più forti per i più fragili e vulnerabili, siano essi individui o Paesi.
La salute è un bene comune globale come pure lo sono l’ambiente, la biodiversità, la cultura, la ricerca, l’istruzione.
Lo stato di salute del singolo non è un fatto puramente privato, o al massimo familiare, ma la salute individuale è una faccenda sociale. La pandemia ha fatto prendere coscienza e consapevolezza di ciò a coloro che non lo avessero ancora compreso o, peggio, lo ignoravano.
La salute ha tutte le caratteristiche di un bene comune globale, ma i beni comuni sono per loro natura fragili e vanno attivamente protetti e tutelati. Da qui la necessità di interventi a tutela della salute pubblica.
sarà fondamentale l’impegno per la costruzione di una rete locale di alleanze con tutte le associazioni
Salute comprende da sé il concetto di solidarietà. Per noi di Salute e Solidarietà, sarà pertanto fondamentale proseguire nello sforzo che si era già avviato: la costruzione di una rete locale di alleanze con tutte le associazioni che in diversi campi e con diverse competenze si occupano di queste persone (sanitario, sociale, legale).
Abbiamo testimoniato con i fatti la nostra disponibilità a collaborare e coordinarci con le istituzioni sanitarie e le amministrazioni locali. Possiamo aiutare a colmare, per quanto possibile, i vuoti che si possono creare soprattutto nell’ambito dell’assistenza agli ultimi.
Inoltre pochi giorni fa la Regione Emilia Romagna ha dato disposizioni alle aziende sanitarie di individuare, nel’ambito dei servizi territoriali, un medico di riferimento che tuteli la salute delle comunità in cui sono temporaneamente ospitati i senza tetto, i senza fissa dimora, gli italiani e gli stranieri non assistiti dal Servizio sanitario. Parliamo quindi di quelle tipologie di persone cui la nostra associazione si rivolge per offrire l’assistenza sanitaria.
Sarà quindi importante instaurare e consolidare (anche formalmente) rapporti di collaborazione più stretti e costanti con queste nuove figure, con le istituzioni locali, con i comuni e con l’azienda sanitaria. Tali collaborazioni saranno sicuramente facilitate dal riconoscimento, da parte delle istituzioni, del ruolo fondamentale che la nostra associazione in campo sanitario (e altre associazioni in campo sociale) ha giocato in queste difficili settimane.
In generale, in ambito sanitario la pandemia ha svelato debolezze ed errori e impone cambiamenti culturali e organizzativi.
Nel dibattito nazionale delle ultime settimane, molto si è discusso di ospedali pubblici e privati e della prevalenza degli uni o degli altri nelle varie regioni. Ci si è anche chiesti se la tutela della salute (un bene collettivo) possa essere così frammentaria e differente da regione a regione, in particolare nelle emergenze sanitarie.
È probabile che di fronte ad un’epidemia di queste proporzioni e manifestatasi con questa violenza, l’impegno prevalente non potesse che essere chiesto alle strutture specialistiche e di emergenza ospedaliera. Ora si sta finalmente ragionando su come ha funzionato la medicina territoriale, nel cui ambito si sono sicuramente palesate carenze e problematiche.
La sanità del territorio avrebbe dovuto essere in prima linea contro il Covid-19: un piano di prevenzione primaria, la diagnosi precoce della malattia e la tempestiva presa in carico delle situazioni clinicamente meno gravi. Sarebbe stata la strategia più logica per prevenire la diffusione del virus.
Tutto ciò non è successo. Qualcosa di più è avvenuto, ma solo parzialmente, nelle regioni in cui la medicina territoriale è più sviluppata, e solo nelle settimane successive all’esplosione della pandemia.
Solo allora i due pilastri della sanità del territorio, i servizi di prevenzione primaria (l’Igiene Pubblica) e i servizi di cure primarie (i medici di medicina generale e le USCA, composte da medici di continuità assistenziale e infermieri del territorio) sono riusciti ad organizzarsi e ad intervenire efficacemente, confrontandosi quando possibile con i servizi sociali dei comuni. Ne è testimonianza il rapporto percentuale, molto diverso fra regione e regione, fra i malati seguiti a casa dai servizi territoriali e quelli ricoverati in ospedale.
Che fare in futuro?
In questi giorni si sono tenuti gli Stati Generali a Roma. Come appreso dai giornali, i progetti che scaturiranno ci dicono che, rispetto alla salute, le direttrici si muovono verso il rafforzamento di:
- le reti sanitarie del territorio e della prossimità del SSN;
- i servizi di prevenzione;
- l’integrazione fra politiche sanitarie e sociali.
Propositi a nostro parere condivisibili e che esulano dalla discussione sulla contrapposizione sanità pubblica/sanità privata, semplicemente perché la sanità territoriale non può che essere pubblica. Un suo rafforzamento è un investimento che non dà profitti immediati e quindi è poco appetibile. D’altronde la prevenzione non fa parte della nostra cultura, anche perché non garantisce risultati nei tempi brevi.
I servizi del territorio sono composti da professionisti della prevenzione e operatori sanitari e sociali che conoscono i loro pazienti, le singole persone svantaggiate per motivi sanitari e sociali e quindi più a rischio. Dal nostro punto di osservazione, sarà importante che questi servizi sappiano muoversi tempestivamente in modo coordinato, grazie alle relazioni, ai legami, agli accordi che sapranno costruire fra loro. Ma sarà altrettanto importante, lo ribadiamo, che anche il mondo del volontariato sanitario e sociale, che si occupa dei più svantaggiati, possa essere chiamato a fare parte, con uguale dignità, di questo patto.